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Lavoratore sanzionato per parlare male dei suoi capi su WhatsApp

Sanzionato. Si becca la punizione il dipendente pubblico che nel whatsapp al collega parla male dei capi: a inguaiarlo è proprio l’interlocutore che fa la spia ai superiori, perché una volta che l’amministrazione apprende il contenuto della conversazione non può non valutarlo sul piano disciplinare. A maggior ragione quando l’incolpato è un militare: l’ordinamento del corpo lascia ampia discrezionalità nel valutare la rilevanza dei fatti. È quanto emerge dalla sentenza 174/22, pubblicata il 14 marzo dalla prima sezione del Tar Sardegna.

Confermato il rimprovero inflitto all’ufficiale che nei messaggi rivolti all’(ex) amica si lamenta dei superiori: una serie di commenti e valutazioni che lede il prestigio dei vertici locali del corpo e lascia intendere che il servizio si svolga in condizioni di inaffidabilità. Il che, stabilisce l’amministrazione, finisce per «minare il clima organizzativo e la serenità del personale».

Inutile secondo i giudici amministrativi invocare la natura privata della conversazione in chat affermata dalla sentenza 21965/18 emessa dalla sezione lavoro della Cassazione. E ciò perché il precedente invocato dalla difesa del militare fa riferimento a una vicenda in cui l’offesa al datore è scritta su gruppo chiuso di Facebook e poi divulgata all’esterno.

Qui, invece, è una dei due partecipanti alla conversazione a far conoscere i messaggi al comando, mentre la giurisprudenza di legittimità, ad esempio, non prende in considerazione la natura riservata delle mail denigratorie quando si pronuncia sul licenziamento: valuta la portata diffamatoria del messaggio o l’eventuale esercizio di critica.

Senza dimenticare che la diffamazione semplice non richiede la divulgazione nell’ambiente sociale, ma si configura con la mera comunicazione, che può essere privata e pure riservata: mentre la pubblicità della comunicazione è un requisito della fattispecie aggravata.

Per i giudici di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “Il datore, poi, non viola libertà e segretezza della conversazione quando a rivelarne il contenuto è uno dei partecipanti.

E nella specie non conta che il messaggio sia one to one e non in un gruppo perché la contestazione disciplinare non richiama in alcun modo la configurabilità di una diffamazione rilevante sul piano penale.

Capita spessissimo che si parli male del proprio capo o della propria azienda. Ciò sia tra colleghi sia con amici. Tale comportamento può però essere motivo di licenziamento poiché, se criticare è lecito, offendere non lo è.

Roberta Cavilli

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