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Licenziamento per fumo sul lavoro, anche con tolleranza

Nuovo orientamento della Cassazione sul fumo dei dipendenti: il licenziamento è legittimo anche in caso di tolleranza

La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza 7826 del 24 marzo 2025, ha fornito un importante chiarimento in materia di violazione del divieto di fumo sul luogo di lavoro. In particolare, ha stabilito che un dipendente può essere licenziato anche se fuma in un’area dove vige un divieto di fumo, a prescindere dalla tolleranza dimostrata dall’azienda e senza che sia necessario un esplicito cartello di divieto. La decisione ribadisce l’importanza di rispettare le norme aziendali, anche in assenza di sanzioni immediate da parte dei superiori.

Questa nuova interpretazione giuridica mette in evidenza come l’azienda possa agire in modo deciso contro i comportamenti che violano le norme interne, senza che il fatto che tali comportamenti siano stati tollerati in passato possa giustificare la violazione stessa. La Corte di Cassazione, infatti, ha chiarito che la tolleranza dell’azienda, anche se protratta nel tempo, non rende legittima la condotta del dipendente, se questa contravviene alle disposizioni aziendali.

La tolleranza non giustifica la violazione delle norme aziendali

Nel caso trattato dalla Cassazione, una società aveva licenziato un proprio dipendente che, insieme ad altri colleghi, aveva fumato in una zona dell’azienda dove era espressamente vietato farlo. Sebbene il divieto fosse ben noto ai dipendenti e la sua violazione fosse un comportamento ricorrente tra i lavoratori, l’azienda aveva scelto di agire contro il trasgressore una volta che il comportamento divenne intollerabile.

La Corte di Cassazione ha precisato che l’assenza di un cartello che indicasse esplicitamente il divieto di fumo e la mancata reazione da parte dei superiori nei confronti dei trasgressori precedenti non sono sufficienti per giustificare il comportamento illecito. È stato infatti ribadito che la tolleranza della violazione non può annullare l’illegalità della condotta, né dal punto di vista oggettivo né da quello soggettivo.

Secondo gli Ermellini, l’assenza di sanzioni immediate o di un richiamo ufficiale non è un elemento sufficiente per escludere la responsabilità disciplinare. In particolare, viene sottolineato che la negligenza del dipendente può essere ritenuta grave anche in assenza di un’azione di controllo immediata da parte del datore di lavoro. Inoltre, se un dipendente ha continuato a compiere un’azione vietata nonostante la conoscenza del divieto, non può giustificare la propria condotta con la convinzione di agire in buona fede.

La responsabilità del dipendente: colpa e buona fede

Nel corso dell’analisi, la Corte ha ricordato che, in caso di violazioni delle norme aziendali, l’elemento soggettivo dell’illecito si configura in presenza di colpa. Se un dipendente agisce in buona fede ritenendo che la sua condotta sia lecita, questo può escludere la sua responsabilità solo nel caso in cui tale errore di valutazione non sia stato evitabile. Perché l’errore possa ritenersi giustificato, infatti, è necessario che ci siano circostanze oggettive che abbiano indotto il trasgressore a ritenere la sua condotta legittima, senza che sia stata commessa negligenza o imprudenza.

Tuttavia, se il dipendente non ha fatto tutto il possibile per osservare la legge o le disposizioni aziendali, la sua azione può essere considerata colposa, con il rischio di sanzioni disciplinari, incluso il licenziamento. La decisione della Corte di Cassazione quindi rinforza il concetto che la responsabilità del dipendente è determinata non solo dalla sua conoscenza delle norme, ma anche dalla sua condotta concreta e dalla diligenza con cui adempie agli obblighi aziendali.

In conclusione, questa ordinanza rappresenta un chiaro avvertimento per tutti i lavoratori e datori di lavoro: la tolleranza nei confronti di alcune violazioni non giustifica la mancanza di azione disciplinare da parte dell’azienda e non annulla la gravità della violazione stessa.

Roberta Cavilli

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